Sul ponte di Fossano

Paul Simon cantava “Bridge over troubled water”, ma in questo caso forse si potrebbe dire “water under troubled bridges”.

È di ieri la notizia di un cavalcavia italiano crollato a Fossano. Non molto tempo fa ne crollò uno a Camerano, e sicuramente lo ricorderete dato che sfortunatamente due persone ci lasciarono la pelle e altre tre rimasero ferite. A questo giro nessuno si è fatto niente quindi ci si sente autorizzati a sdrammatizzare facendo magari anche qualche battuta, per esempio partendo dal fatto che l’unica auto che si trovava sotto e che quindi è rimasta schiacciata è stata una gazzella dei carabinieri. Sembra il finale di una barzelletta bruttina, ma è successo veramente.

Quando succede qualcosa del genere si pensa sempre male, anzi malissimo. Il ponte costruito male, il cemento con la sabbia, il sindaco cialtrone, la mafia, la camorra, l’Europa, l’Isis, la suocera. Qualcosa che non va c’è per forza se un cavalcavia viene giù, è ovvio. Un cavalcavia in teoria non dovrebbe cedere. Però non sono un ingegnere, né tanto meno un mafioso, quindi non so come siano fatti i ponti né quale sia il problema quando questi crollano.

Sono venuto a conoscenza di una problematica che riguarda i nostri amici d’oltreoceano. Ho scoperto che negli Stati Uniti, un Paese che di ponti ne ha costruiti 614,387 (giuro), esiste un problema. Molti di questi ponti sono stati costruiti in una precisa epoca storica, gli anni ’30 e ’40 del XX secolo, per via di grossi investimenti pubblici nelle infrastrutture dettati soprattutto da una volontà politica (il “new deal” rooseveltiano), che era quella di una grossa spesa pubblica per far uscire la nazione da una tremenda crisi economica.

Ad oggi i ponti negli Stati Uniti sono tantissimi, grandissimi, e vecchi. Sì, ponti enormi che hanno un’ottantina di anni e che necessitano di manutenzioni costosissime. Da qui il problema. I governatori dei singoli Stati, che da quello che ho capito sono quelli che di solito stanziano questo tipo di fondi, generalmente procrastinano la cosa, nei casi migliori preferendo spendere soldi in nuove costruzioni più elettoralmente efficaci, nei casi peggiori mancando proprio di fondi (dando magari poi la colpa a Washington più o meno nella stessa modalità con cui qui si incolpa Bruxelles).

Gli Stati Uniti si trovano quindi con moltissimi ponti a rischio. E quando dico a rischio intendo proprio da campanello d’allarme. Barry B. LePatner, un legale che si occupa di edilizia, sta tentando di muovere un po’ le coscienze. Ha scritto un libro che si chiama “Too big to fall”, che sembra il titolo di un porno ma rende l’idea. Ha messo in piedi anche un sito dove vengono mappati i ponti americani a rischio. Il fatto è che se vediamo una crepa su un aereo ci spaventiamo a morte, mentre quando vediamo il ponte di Brooklyn tendiamo a credere che sia una struttura troppo grande e maestosa per poter cadere, ma non è così. Nel 2007 un ponte crollò a Minneapolis durante l’ora di punta, 13 morti. Fece molto scalpore, ma evidentemente non abbastanza.

Chissà se Donald Trump tra una chiusura di un’agenzia per l’ambiente e una trasferta a Mar-a-Lago non stanzierà qualche fondo a riguardo.

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